È morto Sebastião Salgado, il fotografo lirico della verità in bianco e nero

Più volte candidato al premio di "fotografo dell'anno", Salgado scompare all’età di 81 anni. Incredibile documentarista, contraddistinto da uno stile unico e personale, ha ispirato molti artisti emergenti. Lo ricordiamo attraverso alcuni dei suoi scatti e reportage più noti

Sebastião Ribeiro Salgado Júnior, nato in Brasile ad Aimorés l’8 febbraio 1944, è stato un’eccellenza della fotografia, capace di commuovere intere generazioni con l’intelligenza del suo sguardo, con un modo di scattare del tutto personale, una rara capacità di andare a fondo nella sostanza del reale, il coraggio di avvicinarsi con la sua fedele alleata ai soggetti senza elargire giudizi, con l’umiltà che pone di fronte alla verità, anche più cruda e difficile da accettare. Della scomparsa del fotografo brasiliano, che si è spento a Parigi (dove viveva da molti anni) all’età di 81 anni, dà ora notizia l’Instituto Terra, da lui fondato nel 1998 per concentrarsi sul restauro ambientale, a testimoniare l’impegno di Salgado a sostegno dell’ecosistema brasiliano e, più in generale, della biodiversità sul Pianeta. La causa della morte non è ancora stata resa nota, ma motivi di salute gli avevano impedito, negli ultimi mesi, di partecipare a eventi pubblici già programmati.
Sebastião è stato molto più di uno dei più grandi fotografi del nostro tempo. Insieme alla sua compagna di vita, Lélia Deluiz Wanick Salgado, ha seminato speranza dove c’era devastazione e ha fatto fiorire l’idea che il ripristino ambientale è anche un profondo gesto d’amore per l’umanità. Il suo obiettivo ha rivelato il mondo e le sue contraddizioni; la sua vita, il potere dell’azione trasformativa“, si legge nella nota dell’istituto.

Sebastião Salgado: una vita per la fotografia

Conosciuto per i suoi scatti in bianco e nero contrastato, ricchi di vibranti giochi chiaroscurali, Salgado riprendeva i suoi soggetti talmente prossimi all’obiettivo fotografico da trasmettere quasi la sensazione di poterli stringere, toccare, esperire con gli occhi.
Quasi impossibile trovare nel suo ingente compendio uno scatto banale: Salgado nella sua intensa attività ha viaggiato attraversando i cinque continenti, come testimonia il progetto Genesis. Tra i suoi numerosi documentari fotografici, molti sono gli scatti entrati nella storia.

Salgado testimone della realtà. I suoi scatti più celebri

Uno scatto della serie Serra Pelada, State of Para (Brasile, 1986) presenta dinamiche interne all’immagine tali da ricordare una composizione rinascimentale, con una perizia dello sguardo quasi leonardesca. Si tratta del report nella miniera aurifera del Brasile, eseguito quando finalmente passò nelle mani di una cooperativa di minatori, permettendo al fotografo di suggellare scatti memorabili di una situazione drammatica. Salgado raccontava: “La prima volta che ho visto la miniera, ero senza parole. Ho avuto la pelle d’oca: 52.000 uomini che lavoravano, senza una sola macchina, in un buco profondo 200 metri. Metà delle persone trasportava dei sacchi pesanti di terra salendo su delle scale di legno. L’altra scendeva per i pendii fangosi, sprofondando nell’abisso”.
Lasciano senza fiato anche le immagini naturalistiche: la coda del pachiderma dell’oceano che affiora dall’acqua prima di re-immergersi con fragore; la fila ordinata di pinguini che da una coltre di ghiaccio si lanciano nell’acqua (Isole South Sandwich, 2009); i due gabbiani che si sostengono l’uno sull’altro come due teneri innamorati.
E ancora, la capacità di cogliere l’essenza delle tribù autoctone nel libro dedicato all’Amazzonia: i disegni geometrici e il trucco sui volti che dona a questa umanità un carattere mitologico, come nella fotografia della donna incorniciata da una miriade di piume fino al busto.

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Yara Ashaninka, territorio indigeno di Kampa do Rio Amônea, Stato di Acre, Brasile, 2016 © Sebastião Salgado: Contrasto

I reportage di Salgado, dall’America Latina al Kuwait

Altre Americhe è invece il primo libro scritto e pubblicato da Salgado: un reportage fotografico del suo viaggio in America Latina tra il 1977 e il 1984. Si tratta inoltre di uno dei primi esempi di foto-documentari della storia per raccontare diverse etnie e civiltà.
Un altro interessante reportage è quello sull’incendio appiccato – su ordine di Saddam Hussein nel 1991, alla fine della prima Guerra del Golfo – ai pozzi petroliferi in Kuwait: vediamo un uccello ricoperto dall’oro nero, un pompiere intriso di petrolio che si strofina la faccia con un panno e le fiamme che impazzano senza controllo.
Così Salgado descriveva lo spettacolo che si proiettava nei suoi occhi: “Appena ho visto le prime immagini in tv ho avuto voglia di raccontare questa storia. Era come lavorare in un grande teatro, 500 pozzi che bruciavano in un gigantesco palcoscenico grosso come tutto il pianeta c’era una colonna di fumo pesante, tutto questo fumo era così denso che il sole non filtrava, anche per 24 ore di fila sembrava piena notte. Dopo che l’incendio era spento, la terra rimaneva bollente, bisognava buttare una grande quantità d’acqua altrimenti si rischiavano altre esplosioni, eppure qualche volta si sentiva ancora un’esplosione, era come un colpo di cannone, il rumore era così forte che era come lavorare accanto alle turbine di un jet. Adesso sono un po’ sordo, la mia sordità è cominciata là”.

Sebastião Salgado, Ghiacciai 1995-2020, MART, Rovereto. Courtesy of the artist
Sebastião Salgado, Ghiacciai 1995-2020, MART, Rovereto. Courtesy of the artist

La fortuna critica di Salgado. Le mostre e l’ultimo progetto a Trento e Rovereto

Salgado iniziò a fotografare da professionista nel 1973, dal 1990 aveva smesso di fotografare le persone, per concentrarsi sull’attivismo sociale e ambientale. Al 1994 risale invece la fondazione, con sua moglie, dell’agenzia Amazonas Images, dedicata al suo lavoro. I suoi progetti fotografici sono stati al centro di numerosissime mostre in musei e gallerie di tutto il mondo, e proprio la sua ricerca sull’ambiente e sulla vita sulla Terra è protagonista della mostra in corso al Mart di Rovereto, Ghiacciai, visitabile fino al prossimo 21 settembre (con appendice al Muse di Trento, che ospita dieci grandi scatti della serie). Il progetto, curato da Lélia Wanick, è nato da un’idea del Trento Film Festival in collaborazione con i due musei trentini e con Contrasto, in occasione dell’anno per la conservazione dei ghiacciai proclamato nel 2025 dalle Nazioni Unite.

Una lettura critica dell’immaginario salgadiano

Le parole di Peter Sager descrivono alla perfezione il vasto lavoro, appassionato e critico, di Salgado, sempre attento alle identità dei popoli, alle fragilità del pianeta, all’esaurimento delle risorse, alle desolazioni della povertà, dello sfruttamento e della guerra, capace di ascoltare una natura che grida la sua bellezza affinché l’uomo si svegli e decida di salvarla e di salvarsi: “Pur senza la minima traccia di sensazionalismo, le immagini di Salgado hanno una loro spettacolarità. I suoi vigili del fuoco, i suoi operai metallurgici sono eroi al lavoro, talvolta ai limiti dell’idealizzazione romantica. I coltivatori delle piantagioni di canna da zucchero cubane brandiscono i loro machete come guerrieri di epoche arcaiche. E i fuggiaschi etiopi avvolti nei loro panni, ai margini del deserto, sembrano i personaggi di una tragedia antica. Sono immagini estreme di realtà estreme. Il pathos, il gesto elegiaco emana dai soggetti quanto dal modo in cui vengono rappresentati. Gruppi di madri con bambini, scene di passione, masse in gran movimento: queste immagini raccontano storie bibliche che Salgado cita con la passione di un teologo marxista della liberazione”.

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